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LIBRO VII - L’ULTIMA BATTAGLIA

I – Magone, nell’estremo tentativo di sfuggire al nostro controllo, partito dalla Liguria, incitò gli Insubri alla rivolta.


Magone

Raggiunto dal pretore Publio Quintilio Varo e dal proconsole Marco Cornelio Cetego, ingaggiò un disperato combattimento.

Quando Magone cadde gravemente ferito i Cartaginesi ripiegarono, gli Insubri fuggirono.
Nella notte successiva lo stesso Magone, per quanto gli concedeva la ferita, tornò a tappe forzate in Liguria, qui fu raggiunto da messi di Cartagine che gli ordinavano di tornare in patria, dove stava per giungere anche suo fratello  Annibale.

Imbarcati i soldati, sciolse le vele, ma giunto in prossimità della Sardegna la ferita lo condusse a morte.  
Le navi Cartaginesi, disperse in alto mare, furono catturate dalla nostra flotta. 

Un nuovo lutto percuoteva l’animo di Annibale, ma ancor maggiore sofferenza gli procurò l’ordine del senato di rientrare in patria.
Si narra che sopraffatto dall’ira abbia detto:
“Sarà soddisfatto Annone (che era morto da un pezzo) e saranno lieti i miei nemici, che negandomi  rinforzi e denaro, hanno condotto la patria a questi estremi.
Per annientare la nostra famiglia hanno portato Cartagine alla rovina”


Annone

Si dice ancora che volgendosi dalla nave che lo riportava a Cartagine, guardando i lidi dell’Italia, maledisse il Fato e gli uomini ed abbia invocato sul proprio capo la scure degli Dei, perché, mentre Scipione non aveva esitato ad attraversare il mare, portando la guerra sotto alle mura di Cartagine, a lui era mancato il coraggio di assalire Roma, quando aveva sbaragliato i suoi eserciti.

La partenza di Annibale fu accolta da un tale entusiasmo, che si diffusero diverse e fantasiose dicerie.

In verità non credo che Annibale si sia mai rimproverato di non aver marciato su Roma.
Io, che ero a Canne, vidi il campo di battaglia inondato di sangue Romano, ma anche i Cartaginesi avevano pagato alla vittoria un altissimo tributo.

Ad Annibale mancarono le forze per andare all’attacco di Roma e i Cartaginesi non compresero che quello sarebbe stato il momento di produrre il massimo sforzo, inviandogli rapidamente gli aiuti richiesti.
Quel momento passò e non si sarebbe mai più ripresentato.

Il Fato accecò i nostri nemici e volle che Roma sopravvivesse.

 

II – Diversi sentimenti agitavano i Romani.

Taluni rimproveravano ai consoli di aver lasciato che Annibale lasciasse l’Italia senza colpo ferire e ora le sorti della guerra, le nostre sorti gravavano su un solo esercito, un solo comandante.

A rasserenare gli animi giunsero da Sagunto ambasciatori, portando prigionieri dei nobili Cartaginesi che erano passati in Spagna con grandi somme di denaro per ingaggiare mercenari.
Queste somme, pari a duecento cinquanta libbre d’oro (oltre 80 kg, per quei tempi una cifra enorme) i Saguntini consegnarono al Senato, che le restituì loro.

Introdotti gli ambasciatori in Senato, il più anziano prese la parola e dopo aver ricordato le tremende sciagure che avevano sopportato, dopo avere ricordato che Publio e Gneo Scipione avevano liberato e ricostruito Sagunto, dopo aver ricordato che con la morte dei due Scipioni furono presi dall’angoscioso timore di ricadere in mano Cartaginese, disse:
“All’improvviso e insperatamente voi ci avete mandato il nuovo Scipione. Noi ci riteniamo i più fortunati dei Saguntini, perché annunceremo ai nostri concittadini che lui, che è la nostra speranza, la nostra forza, la nostra salvezza, dopo aver cacciato i Cartaginesi da tutta la Spagna, ora, passato in Africa, si appresta ad infliggere al comune nemico l’estrema sconfitta”.  


Gneo Scipione

Il Senato, ordinato al pretore urbano di offrire agli ambasciatori degna accoglienza, consegnò loro ricchi doni.

 

III - Quasi negli stessi giorni giunsero a Roma gli ambasciatori inviati dai Cartaginesi, che fingevano di essere venuti per negoziare le condizioni di pace, mentre attendevano l’arrivo di Annibale e Magone.

Per tale motivo avevano chiesto a Scipione di concedere loro una tregua.

I senatori compresero che secondo la loro malafede i Cartaginesi volevano semplicemente guadagnare tempo.
Pertanto gli ambasciatori furono congedati senza ottenere alcuna risposta.
Alla malafede si aggiunse l’oltraggio, infatti, mentre vigeva la tregua, Gneo Ottavio con una flotta di duecento navi onerarie (mercantili), scortate da trenta navi da guerra, portava rifornimenti a Scipione, sorpreso da una tempesta, naufragò al largo delle Acque Calde (nei pressi di Tunisi).

Da Cartagine uscì una gran folla per impadronirsi della preda, mentre Asdrubale Gisgone con una flotta di cinquanta navi, rimorchiava le navi Romane.


Asdrubale Gisgone

Tutto ciò avvenne durante la tregua chiesta dagli stessi Cartaginesi.
Scipione, indignato, inviò suoi messi a Cartagine.

Ma non solo costoro rischiarono la vita, per di più sulla via del ritorno la quinquereme sulla quale erano imbarcati si salvò a stento dall’abbordaggio delle navi nemiche.

 

IV – Dalle città Greche alleate di Roma furono inviati ambasciatori, lamentando che Filippo V, senza riguardo al trattato di pace negoziato con i Romani, depredava i loro territori. Inoltre aggiunsero che, avendo ricevuto dai Cartaginesi una grossa somma di denaro, aveva inviato in loro soccorso quattromila soldati.

Per ammonire Filippo e sapere quale fosse, al di là delle dicerie, la situazione, furono inviati al Macedone, Gaio Terenzio Varrone, Gaio Atilio Mamilio e Marco Cotta Aurelio.

Filippo V Gaio Terenzio Varrone

In quell'anno (203) morì Quinto Fabio Massimo Verrucoso.

Ebbe il grande merito di fermare Annibale, che dopo la battaglia di Canne sembrava inarrestabile.
Per il modo con cui si oppose al Cartaginese, fu soprannominato “Temporeggiatore” (Cunctator).
I suoi avversari dicevano che ciò corrispondeva alla sua indole, tanto prudente da essere giudicata esitante.

Nell'intento di salvaguardare Roma, abbandonò le terre dei nostri alleati concedendo ad Annibale saccheggi e distruzioni immani e portando, per questa sua scelta, all'esasperazione anche i nostri amici più fedeli.

Avversò Scipione con tutte le sue forze, chiedendone la rimozione, per impedire il suo sbarco in Africa.
Fu a sua volta unanimemente avversato dalla plebe Romana e dai nostri alleati.

Ebbe grande influenza sul Senato, del quale fu a lungo eletto Princeps (oggi diremmo presidente).
Nell'intento di ripristinare gli antichi costumi, celebrava con estrema solennità riti ormai dimenticati.

Fu Pontefice Massimo e per sessantadue anni Augure.


Quinto Fabio Massimo Verrucoso

 

V – Finalmente arrivò in Africa Annibale, che sbarcò le truppe a Leptis Parva (oggi Lempta vicino a Monastir).

Conduceva un esercito che era invecchiato assieme a lui, ma ben pochi di coloro che ci avevano sconfitto alla Trebbia, al Trasimeno e a Canne erano ancora in vita.
Con il suo arrivo i Cartaginesi furono agitati da grandi speranze e non meno grandi timori.

Sapevano infatti che il loro destino era tutto e solo nelle mani di Annibale.
Questi percorse venti miglia (circa 30 km), da Leptis Parva aveva raggiunto Adrumeto (oggi Susa in Tunisia).
Informato che ogni luogo attorno a Cartagine era occupato dai Romani, a marce forzate si diresse a Zama (a sud di Tunisi), qui giunto mandò avanti degli esploratori.

Questi, da noi catturati, furono condotti in presenza di Scipione, poi scortati da un centurione, secondo gli ordini ricevuti, furono invitati a visitare il nostro campo.
Temendo che di lì a poco sarebbero stati messi a morte, gli esploratori giravano a testa bassa in mezzo a noi, che a dire il vero non riuscivamo a trattenere le risate.

Riportati da Scipione, questi chiese loro se erano soddisfatti della visita, successivamente fattili accompagnare da una scorta li rimandò ad Annibale, che rimase sconcertato da tanta sicurezza e vivamente preoccupato quando seppe che Masinissa aveva raggiunto Scipione con seimila fanti scelti e quattromila cavalieri. 


Masinissa

 

VI – Dopo la battaglia dei Campi Magni, come ho detto Masinissa aveva inseguito con la sua cavalleria Siface, precedendo Lelio, che comandava la fanteria Romana.

Siface ritiratosi all'interno del suo antico regno, abbandonò le terre dei Massili che furono riconsegnate a Masinissa.
Peraltro potendo contare ancora su un regno ricco di uomini e animali, Siface armò un nuovo esercito, un esercito  molto numeroso, ma formato in massima parte da reclute.


Siface

Posto il campo non lontano da Cirta (oggi Costantina in Algeria), la capitale del suo regno, si apprestò allo scontro decisivo.
Finché lo scontro fu tra cavallerie, dato il gran numero dei suoi uomini, Siface tenne il campo, ma quando avanzò la fanteria Romana, le truppe del re iniziarono ad arretrare.

Tentando di frenare quella che ormai stava diventando una vera fuga, Siface, avanzato in prima linea, fu catturato e condotto vivo da Lelio.
Grande fu la gioia di Masinissa nel vedere il suo nemico incatenato. 

Non restava che prendere Cirta, all'interno della quale si era rifugiata gran parte dei soldati del re.
Masinissa chiese la resa della città.

Quando i cittadini videro Siface condotto in catene, presi dal panico, aperte le porte, si consegnarono a Masinissa.
Questi non perse tempo e per prima cosa corse alla reggia. 

Qui in veste di supplice lo attendeva Sofonisba, che temendo di essere consegnata ai Romani, si mostrò disponibile ad essere la concubina del vincitore. Di Sofonisba era nota la bellezza e la seduzione, ciò eccitò la fantasia di coloro che, lontani dalla furia delle battaglie, inventano piacevoli storie.


Sofonisba

In verità quando la regina si avvide che Masinissa l'avrebbe consegnata a Lelio, per sfuggire al destino che l'attendeva si diede la morte. 

Masinissa preso possesso dell'intera Numidia, ordinate le cose più urgenti, si rimise a cavallo per raggiungere Scipione a Zama.

 

VII – Avvicinandosi lo scontro decisivo, con diverso animo i due comandanti preparavano alla battaglia se stessi e i propri eserciti.

Annibale, sapendo che questa sarebbe stata la battaglia che avrebbe deciso una guerra lunga sedici anni, impose a Cartagine uno sforzo supremo, grazie al quale dispose di ottanta elefanti quanti mai si erano visti in una battaglia e mercenari di ogni provenienza, Galli, Liguri, Bruttii, Spagnoli, Mauri, Africani, Macedoni.

Diffidava Annibale dei Numidi, temendo che Masinissa li avrebbe indotti a defezionare.
Ma soprattutto, così fu detto, era turbato da funesti presagi.
Per chi, per cosa, si chiedeva, avrebbero rischiato la propria vita genti che parlavano lingue diverse, diversi nei costumi, diversi nel modo di combattere?
Non per la patria costoro avrebbero combattuto, ma per odio verso i Romani e per la speranza di un largo bottino.

Quale comandante della coorte pretoriana di Scipione sono stato testimone privilegiato di quei fatidici giorni. 
Una incrollabile fede sosteneva Publio Cornelio, che non dubitò mai della Vittoria, doveva semmai tenere a freno Masinissa, che dopo aver disfatto Siface, voleva la distruzione di Cartagine, mentre instancabilmente faceva defezionare schiere di Numidi.

Quando fu chiaro che il giorno Fatale si avvicinava, Scipione convocò il consiglio di guerra.
Per prima cosa si discusse degli elefanti, non era la prima volta che Annibale schierava contro di noi queste belve, ma era la prima volta che ne schierava un numero così grande.

Per evitare che la loro carica travolgesse la nostra fanteria, schierata al centro,  fu deciso di lasciare tra i manipoli (ogni legione era formata da 30 manipoli) degli ampi corridoi.
Quando gli elefanti sarebbero stati mandati all’assalto, i veliti (lanciatori di giavellotto) e gli arcieri, dovevano lasciare liberi i corridoi e riparare entro i manipoli da qui avrebbero bersagliato le belve da ogni lato.

All’ala sinistra si sarebbe schierato Lelio con la cavalleria Italica, all’ala destra Masinissa e i suoi Numidi.


Lelio

Scipione sapeva che nella furia della battaglia, tutto poteva succedere, era dunque fondamentale che gli ordini fossero chiari e che i comandanti ricevessero tempestivamente gli ordini.

Il compito di tenere i collegamenti tra i vari reparti e fungere da portaordini fu affidato alla coorte pretoriana, mentre i segnali urgenti (avanzata a destra, a sinistra, al centro, ritirata), sarebbero stati trasmessi dai trombettieri e dai bucinatori (suonatori di corno), secondo modalità segretamente convenute.


Bucinatori

Ogni comandante avrebbe a sua volta trasmesso gli ordini ai Signiferi, che con le insegne avrebbero guidato ogni coorte (ogni legione era formata da 10 coorti).

Ribadite più volte le istruzioni, quando Scipione fu soddisfatto, il consiglio di guerra fu sciolto.


Signiferi

Annibale, nella sua solitudine, decise di schierare la sua armata su tre fila, al centro in prima fila gli elefanti, dietro ai quali si sarebbero collocati i Liguri, i Galli e i fanti Mauri, assieme ai frombolieri.

Nella seconda fila si sarebbero schierati i Cartaginesi, gli Africani ed i Macedoni.

Nella terza fila quali truppe di riserva schierò i Bruttii e gli Spagnoli.

All’ala sinistra dispose che si schierassero i cavalieri Numidi e Mauri, alla destra la cavalleria Cartaginese.

Accadde così che i Numidi di Masinissa fronteggiassero i Numidi di Annibale.
Di ciò Scipione e Masinissa erano stati informati.
Non avremmo potuto desiderare di meglio.

Angustiava Annibale la difficoltà di trasmettere gli ordini nel corso della battaglia a genti che parlavano diverse lingue.

Grandi speranze riponeva nella carica degli elefanti.

Al sorgere del nuovo sole Annibale rivolse il proprio incitamento ai Cartaginesi e ogni comandante ai propri connazionali nel loro idioma.

Scipione con a fianco Lelio e Masinissa, con la spada sguainata, seguito dalla guardia pretoriana, percorse al galoppo tutto lo schieramento, rendendo omaggio ai vessilli, quindi tornato al centro cosi incitò i soldati:
“La prossima notte con la Vittoria verranno a termine le nostre fatiche.
Nelle nostre mani avremo Cartagine come preda.
Presto tornerete in patria, presso i Padri, le Mogli, i Figli e gli Dei Penati” (protettori della famiglia e della casa).

Le sue parole furono accolte da un tale boato che una decina di elefanti, presa dal panico, si diede alla fuga investendo l'ala sinistra di Annibale, dove si trovavano i Mauri e i Numidi, parte dei quali, colta la favorevole opportunità, disertarono, raggiungendo Masinissa. 

 

VIII – Quando Annibale vide alla sua ala destra incerti i cavalieri Numidi e Mauri, ordinò la carica degli elefanti, seguiti dai Liguri, dai Galli e dalla fanteria dei Mauri.

Secondo le istruzioni ricevute i nostri veliti e gli arcieri lasciarono liberi i corridoi riparando nei manipoli, da qui bersagliavano gli elefanti da ogni lato, ma le belve, rese furiose dalle ferite, si gettarono sui nostri fanti, scompaginandone le fila.

Scipione, visto che lo stratagemma non aveva funzionato, ordinò a Lelio e a Masinissa di attaccare nello stesso momento le cavallerie nemiche.

Masinissa, che da lungo tempo attendeva l’ora della vendetta, trascinò i suoi Numidi alla carica travolgendo prima i Mauri, poi mettendo in fuga gli avversi Numidi. Di seguito, secondo le segnalazioni di Scipione, mentre parte dei suoi inseguiva i cavalieri nemici, con il grosso degli uomini si avventò sulla seconda linea di Annibale, quella formata dai fanti Cartaginesi, Africani e Macedoni.

La cavalleria Italica guidata da Lelio, si batté con tale vigore contro i Cartaginesi che costoro si diedero ad una fuga tanto precipitosa da non meritare di essere inseguiti.
Viste le segnalazioni di Scipione, anche i cavalieri Italici chiusero la tenaglia sulla seconda linea Cartaginese.

Annibale nell’estremo tentativo di soccorrere la sua seconda linea, mandò all’attacco i fanti Bruttii e Spagnoli che costituivano le truppe di riserva.
Tentativo disperato e destinato all’insuccesso, infatti in quella aperta campagna nessuna speranza poteva avere la fanteria contro le cavallerie di Masinissa e Lelio.

Pertanto, dispersa la terza linea di Annibale, la sua seconda linea, abbandonata dai cavalieri, non riuscendo a ricongiungersi con la prima linea, cadde preda di Lelio e Masinissa.
Costoro non indugiarono, ma messa in fuga anche la seconda linea, presero alle spalle la prima linea.

La nostra fanteria, visto che i nemici erano assaliti alle spalle, si ricompattò, mentre gli elefanti percossi dalle ferite, cadevano stremati.
Vista vana ogni resistenza i sopravvissuti Liguri, Galli, Mauri, gettate le armi si arresero. 

Annibale, dopo essersi ritirato ad Adrumeto, tornò a Cartagine dalla quale era partito fanciullo trentasei anni prima.

Convocato il senato dichiarò che era stata perduta non solo la battaglia, ma la stessa guerra e che l’unica speranza di salvezza era quella di chiedere e ottenere la pace.


Annibale

 

IX – Ricordo di quei convulsi giorni il cambiamento di Scipione l’Africano.

Prevaleva in lui la preoccupazione che per incauta imprudenza disperdessimo il frutto guadagnato con tanto sangue, tanta sofferenza, tanto dolore.


Scipione l’Africano

I comandanti, i tribuni, i centurioni, furono richiamati all’ordine, nessuno doveva abbandonarsi ad intempestivi festeggiamenti.
La guerra sarebbe finita solo con la resa di Cartagine.

Iniziarono le trattative con i Cartaginesi.
Le condizioni imposte da Scipione, perché fosse concessa la tregua erano dure, ma si dice che lo stesso Annibale le abbia giudicate eque.
Non così Asdrubale Gisgone che consigliò di respingerle.

Annibale sdegnato abbandonò l’assemblea popolare dove si discutevano tali cose e temendo che i suoi codardi concittadini lo avrebbero consegnato nelle nostre mani, nottetempo abbandonò l’ingrata patria e salpò alla volta di Antioco re di Siria.

Partito Annibale i Cartaginesi accettarono le condizioni poste da Scipione l’Africano.

Antioco Annibale

 

FINE

 

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