I – In Sicilia venne a morte Gerone (308 – 215), nostro fedele alleato  nella buona e nella cattiva sorte.
Aveva regnato per quarantacinque anni.
                 Scomparso l’anno prima il figlio Gelone, suo successore fu il nipote Geronimo, che allora contava solo quindici anni.

                   Geronimo
Adranodoro e Zoippo, generi di Gerone, tutori di  Geronimo, temendo che i Romani avrebbero esercitato una forte influenza sui  Siracusani, rendendo pertanto vane le loro ambizioni, decisero di defezionare  per passare ai Cartaginesi.
Geronimo, tanto giovane quanto volubile, fu da loro indotto al tradimento  per allearsi con Annibale, che, andavano dicendo, stava annientando gli  eserciti di Roma.
Il Cartaginese, avendo con grandi promesse conquistato il favore di Adranodoro  e Zoippo, fu da costoro informato che Geronimo era stato da loro convinto ad  allearsi con Cartagine.
Prontamente Annibale inviò da Geronimo due suoi fiduciari, Ippocrate ed Epicide, cittadini Cartaginesi ma originari di Siracusa.

  Ippocrate
Per il loro tramite il giovane re concordò con Annibale che, cacciati i  Romani dalla Sicilia, l'isola sarebbe stata divisa tra Siracusani e  Cartaginesi, avendo come confine dei rispettivi domini il fiume Imera.
Vista la buona disposizione manifestata dai due Cartaginesi, Geronimo, dopo  qualche giorno, mutato parere, chiese per sé l'intera Sicilia.
Ippocrate ed Epicide, compreso che avevano a che fare con uno stolto,  promisero di intercedere presso Annibale, della cui buona disposizione erano  peraltro certi.
Sentendosi ormai padrone dell'intera isola, Geronimo si apprestò ad  attaccare Leontini, (oggi Lentini),  dove si trovava una guarnigione Romana.
  
  Mandati avanti Ippocrate ed Epicide, con duemila soldati ciascuno, egli  stesso partì con quindicimila tra fanti e cavalieri.
    Ma caduto in un imboscata, tesagli forse su istigazione degli stessi  Cartaginesi, fu ucciso.
  Leontini fu presa dai Siracusani, la guarnigione Romana massacrata.
  Morto Geronimo, Siracusa precipitò nella più completa anarchia, le diverse  fazioni in guerra tra loro compirono orrendi crimini, né le figlie, né le  nipoti di Gerone furono risparmiate.
  In tale situazione i veri padroni della città risultarono essere Ippocrate  ed Epicide.
  Il pretore Appio Claudio,
    informato il Senato dell'accaduto, spostò tutte le sue truppe ai confini  del regno di Siracusa.
  
    Appio Claudio
   
 II – Quelli di Leontini, sperando nell’aiuto dei Cartaginesi, rifiutarono ogni  trattativa con Marcello, che attaccata la città prima che i soccorsi inviati  dai Siracusani potessero giungere; in breve tempo la prese (214), vendicando il massacro delle guarnigione Romana.
 Abbattute le mura, Leontini cessò di essere per i Romani una minaccia.
Il felice esito di questo suo primo scontro convinse Marcello ad attaccare  la stessa Siracusa.
  Dapprima aggredì la città dalla parte del mare, avendo montato su  sessantacinque quinqueremi potenti macchine da guerra. Ma a Siracusa si trovava  Archimede,
  mirabile inventore, costruttore di macchine da getto e di ogni tipo di  opere difensive.

  Archimede
  Le invenzioni di Archimede resero vani gli attacchi Romani, Marcello  dovette quindi ripiegare sull’assedio, cingendo Siracusa da parte di terra e da  parte di mare.
Ciò fatto partì con almeno la terza parte dell’esercito, per riportare  sotto il dominio di Roma le città Siciliane che avevano defezionato.
Eloro (non lontano da Noto, alla foce del fiume  Tellaro) ed Erbesso (forse l’attuale Pantalica) si arresero.  Megara Hyblea fu presa con la  forza e saccheggiata.

La guerra si andava intanto  estendendo a tutta la Sicilia.
Il Cartaginese Imilcone  sbarcò ad Eraclea Minoa con  venticinquemila fanti e tremila cavalieri, salutato da un messaggio di Annibale  che lo sollecitava a riconquistare la Sicilia. 
Nell’intento di annientare le  truppe di Marcello, Ippocrate partì da Siracusa, con diecimila fanti e  cinquecento cavalieri, per ricongiungersi con Imilcone.

  Imilcone
Agrigento si arrese.
   Marcello, non essendo riuscito a prevenire il nemico, tornava da Agrigento;  quando sorprese i Siracusani di Ippocrate, che disordinatamente si apprestavano  a fortificarsi, fece strage della fanteria, mentre i cavalieri con Ippocrate si  rifugiarono ad Acre (Palazzolo Acreide).
  Confortate dalla vittoria di Marcello le città filo-Romane non  defezionarono.
   Marcello tornò a Siracusa.
 
               III - Nello stesso tempo il comandante della flotta Cartaginese, Bomilcare schierò cinquantacinque navi davanti al gran porto di Siracusa, ma poiché  le forze Romane erano superiori, né poteva gravare sugli alleati Siracusani che  già cominciavano a scarseggiare di viveri, ripreso il mare tornò a Cartagine.

  Bomilcare
               All’altro estremo della Sicilia i Romani sbarcarono a Panormo (Palermo)                 una legione.
               Imilcone pensando di aver facilmente ragione di queste truppe si avviò  percorrendo l’interno dell’isola.
               Ma i Romani si erano nuovamente imbarcati e via mare giunsero a Pachino.
                 Imilcone allora ripercorse l’isola per indurre le città Siciliane ad  abbandonare l’alleanza con i Romani.
               Prima ad arrendersi fu Morgantia (Morgantina, oggi Aidone), dove  avevamo ammassato una grande quantità di grano.
                 Molte altre città defezionarono, anche Enna, urbs inexpugnabilis (città  inespugnabile) si preparava a farlo, ma il comandante del presidio Romano,  il centurione Lucio Pinario, non  cadde nella trappola tesagli dagli Ennesi con l’aiuto di Imilcone: fingendo  di aderire alle richieste dei maggiorenti, che gli chiedevano di consegnare le  chiavi della città, disse che lo avrebbe fatto se l’assemblea del popolo lo  avesse chiesto.
               
               Convocata l’assemblea nel teatro, i soldati di Pinario, precedentemente  istruiti, occuparono tutte le vie d’uscita e ad un segno di Pinario assalirono  i cittadini, compiendo una strage forse crudele, certo necessaria.
               Così Enna fu serbata ai Romani e il presidio si pose in salvo.
                 La strage non conciliò i Siciliani con i Romani, ma Marcello non solo non  la disapprovò, ma anzi concesse ai soldati il bottino.
               Ippocrate si rifugiò a  Morgantia, Imilcone andò ad Agrigento, Marcello tornò all’assedio di Siracusa  ed avendo autorizzato Appio Claudio a recarsi a Roma per chiedere il consolato,  nominò comandante della flotta Tito  Quinzio Crispino.
               
  Tito Quinzio Crispino
                
               IV – Intanto l’orizzonte della guerra si faceva sempre più vasto.
               In Africa la Numidia era divisa in due regni, ad  occidente quello dei Maesesili,  ad oriente confinante con Cartagine, quello dei Massili, a capo dell’uno era Siface,
                 dell’altro Gaia.
               
                 Poiché i Cartaginesi si erano risolti ad appoggiare Gaia, sembrò agli  Scipioni che questa potesse essere l’occasione buona per guadagnare Siface alla  causa Romana.
                 Mandarono dunque ambasciatori al re offrendo amicizia ed alleanza contro il  comune nemico Cartaginese.
                 
                   Siface
                 Il re ben contento ricambiò l’ambasceria incaricando  i suoi uomini di far sì che i Numidi che militavano in campo Cartaginese  defezionassero.
                 Immediatamente i Cartaginesi inviarono messi a Gaia invitandolo a scendere  in guerra contro Siface con il loro aiuto.
                 Masinissa,
                   figlio di Gaia, giovane e bellicoso, nulla desiderava più della guerra.
                  E guerra fu.
                 
                   Masinissa
                 Siface gravemente sconfitto dovette rifugiarsi nelle più lontane terre del  suo regno.
In Spagna l’unico avvenimento degno di memoria fu il passaggio della  gioventù dei Celtiberi in campo  Romano.
Fu la prima volta che i  Romani arruolarono dei mercenari
.                
 
               V – In Italia, Annibale non aveva rinunciato all’idea di conquistare Taranto, per disporre finalmente di un  grande porto dove ricevere ogni sorta di rifornimenti ed in pari tempo offrire  a Filippo V un facile sbarco in Italia.
               Promessi grandi premi alla fazione anti-Romana, attese gli eventi.
                 Quando i suoi complici furono pronti, consigliarono ad Annibale di  avvicinarsi alla città.
               Queste manovre non sfuggirono ai nostri amici Tarantini, che avvertirono  Marco Livio, comandante della guarnigione, dell’imminente pericolo.
               Il Romano decise allora di fortificarsi nella rocca
                 che da un lato domina il porto, dal lato opposto confina con la città  bassa.
               
                 Trasportate sulla rocca tutte le macchine da guerra, i Romani si  apprestarono a resistere.      
                I congiurati, avendo compreso di essere stati scoperti e temendo per la  propria vita, avvertito Annibale, nottetempo aprirono le porte della città.
                I Cartaginesi si precipitarono all’interno, ma intanto Marco Livio si era  attestato con i suoi sulla rocca.
                 Sembrò ad Annibale che fosse impresa da poco costringere i Romani alla  resa, ma appena le sue truppe si avvicinarono al fossato, che i nostri avevano  scavato per separare la rocca dalla città bassa, furono assaliti dai legionari  e costretti alla ritirata.
                Per impedire che i Romani facessero nuove sortite Annibale ordinò che fosse  costruito un muro.
                Solo allora il Cartaginese si rese conto di ciò che gli era stato tenuto  nascosto, il porto era nelle mani dei Romani, che pertanto potevano essere  riforniti a volontà.
Alla defezione di Taranto  fecero seguito quelle di Metaponto  e Turii. 

 
               VI – A Roma indetti i comizi, furono eletti consoli  Quinto Fulvio Flacco per la terza volta ed Appio Claudio Pulcro.
In Sicilia fu prorogato il comando a  Marcello, a Levino il comando della flotta e a Varrone,
come già detto, la difesa del Piceno.
               
                 
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                   | Quinto Fulvio Flacco | 
                   Varrone | 
                 
               
                                Con un certo rimpianto lasciammo le fortificazioni, che avevamo costruito  vicino a Siponto, sulle montagne della Daunia.
               Infatti tra noi, i contadini e i  pastori del posto si era creata una salda amicizia, tanto che in quegli anni  non ci mancò mai nulla e addirittura i pescatori che numerosi si trovano nei  due grandi laghi a settentrione della Daunia (il lago di Lesina e quello di  Varano), spesso ci portavano dell'ottimo pesce.
               Fu dunque con una certa tristezza che lasciammo  quegli amici e quei luoghi dai quali si vede la meravigliosa distesa del mare  Adriatico.
               Gaio Terenzio, di fronte alle manifestazioni di cordoglio della  popolazione, promise che non li avremmo abbandonati alla furia Cartaginese,  memori della loro amicizia li avremmo sempre difesi; frattanto lasciammo ai  pastori le nostre fortificazioni e partimmo in difesa del Piceno, mentre a Tiberio Sempronio Gracco fu assegnata la Lucania.
               
                 Tiberio Sempronio Gracco
               I consoli, assunto il comando delle legioni, che si trovavano a Benevento,  marciarono verso il territorio Capuano, devastandone le campagne e minacciando  la stessa Capua.
               Presagendo che Annibale, lasciata l'Apulia, sarebbe andato in difesa di Capua, per non lasciare Benevento  senza difese, i consoli chiesero a Tiberio Gracco di partire dalla Lucania con  un contingente di cavalleria ed uno di fanteria leggera.
               Gracco mentre preparava la partenza, tradito da un Lucano, cadde con la sua  scorta in un'imboscata tesagli nella località nota come “Vecchi Campi”.
               La morte di un uomo così  famoso e amato, non solo fu per noi causa di grande dolore, ma provocò nelle  legioni, formate dagli schiavi liberati da Gracco, un generale sbandamento,  temendo costoro che, con la morte del loro patrono, sarebbero ricaduti in  schiavitù.
                
                VII – Appio Claudio e Quinto Fulvio giunti  nel territorio Capuano iniziarono le operazioni di guerra.
               In questi iniziali frangenti i Capuani, confortati dalla notizia che  Annibale stava arrivando in loro aiuto, si batterono con grande ardore.
                 Il Cartaginese, viste le iniziali difficoltà incontrate dai nostri, era  convinto che la sua sola presenza avrebbe gettato nel panico i Romani.
               Ma i consoli, per nulla intimoriti, accettarono lo scontro, che fu  violentissimo. Incalzati dalla cavalleria nemica i nostri stavano per cedere,  quando si presentò sul campo di battaglia Gneo Cornelio Lentulo, che aveva sostituito Gracco nel comando del  contingente Romano.
               Annibale temendo di essere assalito alle spalle si ritirò nel proprio  accampamento, ma anche i consoli portarono le rispettive truppe negli  accampamenti per curare i feriti.
               Il giorno seguente i consoli, volendo allontanare Annibale da Capua,  uscirono separati dagli accampamenti, Fulvio si diresse verso Cuma, Appio in  Lucania.
                 Annibale dopo una prima incertezza decise di inseguire Appio, questi, fatto  un ampio giro, per altra strada tornò a Capua.
               La preparazione dell'assedio di Capua iniziò ammassando grano a Casilinum,
                 alla foce del Volturno fu fortificata una rocca, a Puteoli fu dislocato un  forte presidio.
               
                 Così controllando il mare e il fiume, da Ostia fu trasportato il frumento, che Tito Manlio aveva mandato  dalla Sardegna, in modo che nell'inverno nulla mancasse all'esercito.
 
               VIII – Mentre i consoli con somma cura preparavano  l’assedio di Capua, il pretore Gneo Fulvio Flacco, fratello del console, dopo  aver riconquistato alcune città Apule, accampatosi nei pressi di Herdonea (oggi Ordona in provincia di Foggia),  consentì ai soldati di abbandonarsi ad ogni licenza, trascurando la disciplina.
               Intanto Annibale, temendo una sollevazione generale della Lucania e della  Apulia, convinto che Capua non corresse rischi imminenti, si avviò verso  Herdonea,
                 dove sapeva che si era accampato con due legioni il pretore Romano.
               
                                Trascinato dai propri soldati Gneo Fulvio andò incontro ad Annibale ed andò  incontro ad una vergognosa sconfitta.
                 I legionari tanto erano stati tracotanti con gli alleati, altrettanto  furono vili in battaglia, superati da Gneo Fulvio che non appena vide segni di  cedimento, fu il primo a fuggire.
               Dei Romani quelli che non caddero in battaglia si dispersero nelle  campagne.
               Circa un anno dopo Gneo  Fulvio fu messo in stato d’accusa, imputato di codardia ed imperizia, quando si  avvide che vana era la difesa lasciò l’Urbe in volontario esilio, cavandosela  con una pena pecuniaria.
                 
IX – Nell’intento di minimizzare la sconfitta fu chiesto ai consoli e al pretore  Publio Cornelio Lentulo di raccogliere i resti delle due legioni e ricondurre  sotto le insegne gli schiavi liberati da Sempronio Gracco. 
I consoli chiamato il pretore Claudio Nerone  dai Campi di Claudio (Marcello) a Suessula, iniziarono l’assedio di  Capua, scavando un fossato ed innalzando un vallo intervallato da torri.

  Claudio Nerone
I Capuani dopo aver vanamente tentato di ostacolare i Romani, si ritirarono  entro le mura, non senza aver mandato messi ad Annibale lamentando l’abbandono  della propria città.
Il Cartaginese rispose sdegnosamente, che come altre volte sarebbe venuto  in loro soccorso e che alla sua sola vista i consoli si sarebbero allontanati.
  Annibale era combattuto tra il desiderio di espugnare la rocca di Taranto e  la necessità di non abbandonare Capua.
  Prevalse la necessità.
Partito dunque per la  Campania con un corpo scelto di cavalieri, di fanti armati alla leggera e trentatré  elefanti, in un breve torno di tempo, giunto in prossimità di Capua, avvertì Bostare e Magone, comandanti del presidio Cartaginese, di tenersi pronti con  i Capuani e ad un suo segnale irrompere fuori dalle mura assalendo i Romani.   
 
X –All’avvicinarsi dei Cartaginesi i nostri si schierarono in siffatto modo:  Appio fronteggiava i Capuani ed il presidio Cartaginese, Fulvio si opponeva ad  Annibale, mentre Nerone con la cavalleria della sei legioni copriva Suessula.
Quando iniziò la battaglia Appio respinse i Capuani e li costrinse a  rifugiarsi entro le mura.
  Combattendo coraggiosamente in prima fila, mentre incitava i suoi fu  gravemente ferito al petto.
Fulvio investito dalla cavalleria nemica e dai fanti appoggiati dagli  elefanti, quando vide che la sesta legione cominciava a cedere, chiamati a sé i  più valorosi dei centurioni ordinò che contrattaccassero con tutte le proprie  forze.
Il centurione primipilo Quinto  Navio,  uomo valorosissimo, avanzato in prima fila, trascinò i legionari contro la  coorte Spagnola che stava per sfondare il nostro schieramento.
Imponente per la sua alta statura Navio fu bersagliato dai nemici, ma non arretrò di un passo.
  La mischia si accese furibonda.

  Quinto Navio
Colpiti dai nostri giavellotti gli elefanti precipitarono nel fossato.
La coorte Spagnola fu costretta alla ritirata.
Annibale visto vano il tentativo di impadronirsi del campo Romano, fatte  ripiegare le insegne rientrò nel proprio accampamento.
Fulvio si rallegrò non solo  per l’esito della battaglia, ma anche perché i Capuani videro che neppure  Annibale era in grado di trarli in salvo.
 
XI – Oppresso dalla sua presente impotenza, il Cartaginese tentò di indurre i  Romani ad abbandonare l’assedio di Capua, ricorrendo allo stratagemma di  dirigersi verso Roma, per trascinare i proconsoli al suo inseguimento.
Ma Fulvio informò il Senato che il nemico non aveva forze sufficienti per  insidiare l’Urbe. Comunque lui stesso lo avrebbe seguito con truppe scelte,  mentre Appio, ferito, restava a Capua.
Grande fu lo scorno di Annibale quando seppe che mentre si avvicinava a  Roma, dalla città uscivano due legioni in partenza per la Spagna.
Preso dall’ira il Cartaginese devastò tutto ciò che poté, poi, girando alla  larga da Capua, attraverso il Sannio e  la Lucania tornò nel Bruttio.
Vistisi abbandonati, i  Capuani ed anche Bostare e Annone scrissero ad Annibale un’aspra lettera,  lamentando che non solo aveva abbandonato i Capuani, ma anche loro stessi e la  guarnigione Cartaginese, esponendoli ad ogni tortura, celandosi nel Bruttio per  non vedere con i propri occhi la caduta della città.
 
XII – Avvicinandosi la fine di ogni speranza, quelli dei Capuani che più di altri  avevano tramato per la consegna della città ad Annibale, favorendo il massacro  dei Romani, temendo la delazione dei propri concittadini, si diedero la morte.
Accettata la resa di Capua, i proconsoli ordinarono che fosse aperta la  porta che fronteggiava l’accampamento Romano, da qui entrò Fulvio con una  legione e due ali di cavalieri.
Fattesi consegnare le armi, mise sentinelle a tutte le porte in modo che  nessuno potesse allontanarsi, prese prigioniero il presidio Cartaginese, si  fece consegnare tutto l’oro e l’argento, infine ordinò ai senatori di recarsi  nell’accampamento Romano, dove furono incatenati.
Da qui quelli che avevano capeggiato il tradimento furono inviati, venticinque a Cales (nel comune dell’attuale Calvi Risorta, poco  a nord di Casilinum), ventotto a  Teano Sidicino.

  Circa la pena da infliggere ai colpevoli Appio e Fulvio erano in  disaccordo, quest’ultimo, uomo inflessibile, memore delle tante sofferenze che  la defezione dei Capuani aveva procurato ai Romani, intendeva far pagare il  prezzo del tradimento con la pena più severa. Appio invece pensava che si dovesse  interpellare il Senato, al quale per decisione comune fu inviata una lettera  chiedendo istruzioni.
 Invero non pochi nobili Capuani erano imparentati con altrettanti nobili  Romani.
Mentre la risposta da Roma tardava a giungere, Appio non resse alla ferita  nemica e venne a morte.
  Allora Fulvio, senza più attendere, partito da Capua con duemila cavalieri,  giunse a Teano Sidicino, fatti portare i senatori Campani nel foro, prima li  fece disanimare a colpi di verga, poi li decapitò, secondo l’antico costume.
Ripartito da Teano per Cales, qui fu raggiunto dalla lettera del Senato.
  Non volle leggerla ed inflisse ai senatori la stessa pena inflitta a quelli  di Teano.
  Più tardi, letta la missiva del Senato, seppe che gli veniva chiesto di  sospendere la pena.
Quanto a Capua, non fu distrutta, ma gli abitanti furono dispersi nelle  campagne, senza potersi avvicinare alla città, che divenne un borgo abitato da  contadini, senza avere propri magistrati.
La giustizia venne amministrata  da un magistrato inviato temporaneamente da Roma.
 
XIII – Mentre Capua era assediata, in Sicilia Marcello era incerto se attaccare  Imilcone e Ippocrate ad Agrigento, oppure assalire Siracusa.
Possenti mura difendevano la vasta città,
  che attraverso il porto poteva essere rifornita dai Cartaginesi; ma i  Siracusani fuggiti presso i Romani insistevano perché Marcello non si  allontanasse da Siracusa. Questi allora li sollecitò a prendere contatto con  quelli della loro parte, che erano rimasti intrappolati in città, garantendo  che se Siracusa si fosse consegnata ai Romani, sarebbero vissuti liberamente,  retti dalle proprie leggi.

Ma i filo-Romani erano attentamente sorvegliati.
 Nessun colloquio fu possibile.
 Quand'ecco che un centurione scoprì un punto debole nelle mura Siracusane:  costui, contando il numero di pietre e calcolando con la massima precisione la  loro altezza, si avvide che un tratto delle mura poteva essere superato con  scale non troppo alte.  
 Accade spesso, quando le mura sono molto lunghe, che per seguire le irregolarità  del terreno, mentre la loro altezza sembra sempre la stessa, misurata da terra  varia continuamente.  
  Peraltro quel tratto di mura era sorvegliato accuratamente.  
Come ho precedentemente detto, soprusi e violenze governavano la città,  tanto che ogni giorno numerosi fuggiaschi riparavano nel campo Romano.
  Uno di questi raccontò che di lì a poco si sarebbero svolte per tre giorni  le feste di Diana.
 Epicide,
  visto che i Romani nulla avevano apprestato per l'assedio della città,  avrebbe offerto vino a tutta la popolazione festante.

  Epicide
Marcello non si lasciò  sfuggire l'occasione, mentre i Siracusani banchettavano e sulle mura le stesse  guardie si abbandonavano all'ebbrezza, mandò mille armati con i più valorosi  dei centurioni a scalare le basse mura, uccisi i custodi, fece avanzare  l’intero esercito, mentre quelli che avevano scalato le mura scardinavano le  porte della città. 
 
XIV  - Siracusa è detta Pentapoli (5 città) e davvero entro le mura vi sono cinque quartieri in tutto simili a città,  essi sono: l’Isola (Ortigia), l’Akradina, la Tiche,  la Neapolis e l’Elipoli.

  Marcello era entrato nell’Elipoli, quando Epicide, messo sull’avviso dalla  fuga degli abitanti, avanzò dall’Isola, pensando ad una incursione di pochi armati.  Quando si avvide che i Romani erano entrati con grandi forze, corse ad occupare  l’Akradina, temendo soprattutto la ribellione dei Siracusani.
In pari tempo inviò messi ad Imilcone ed Ippocrate perché venissero in suo  soccorso, se non volevano che l’intera città cadesse in mano nemica.
Marcello, quando vide che era inutile sperare nella rivolta dei  filo-Romani, pose il campo tra Neapoli e la Tiche. Ordinato ai soldati di non  fare strage delle persone, diede mano libera al saccheggio.
Bomilcare mentre  l’attenzione generale era rivolta a quella parte della città che i Romani  avevano occupato, salpò dal porto di Siracusa con trentacinque navi, per  tornare da Cartagine, dopo pochi giorni, con cento navi.
  Marcello intanto cinse d’assedio l’Akradina, nell'intento di prenderla per  fame, ma intanto erano giunti da Agrigento col loro esercito Imilcone ed  Ippocrate, che si attestarono nei pressi del porto grande.
Successivamente, assieme a quelli dell’Akradina,  attaccarono i Romani che al comando del legato Tito Quinzio Crispino  presidiavano i vecchi accampamenti.
Crispino, uomo coraggiosissimo, non solo respinse, ma mise in fuga i  nemici.
  Contemporaneamente, mentre Bomilcare sbarcava i rifornimenti, Epicide  muovendo dall’Isola attaccò Marcello, ma fu ricacciato.
Di lì a poco una violenta  pestilenza si diffuse tra i Romani e i nemici.
  Marcello visto che la tremenda calura aggravava le condizioni dei soldati,  li fece riparare in città all’ombra delle case, mentre gli uomini di Imilcone  ed Ippocrate non avevano luogo dove rifugiarsi.
Atterriti dalla peste i Siciliani, che erano venuti in soccorso dei  Siracusani, fuggirono ciascuno verso le proprie terre.
  I Cartaginesi, oppressi dalla peste e dalla  calura, caddero tutti fino all’ultimo uomo.
Non pochi furono anche i  nostri morti. 
 
XV – Ripreso il mare, Bomilcare tornò a Cartagine informando il senato della  critica situazione nella quale si trovavano i loro alleati Siracusani, ma al  tempo stesso affermò che anche i Romani erano alle strette, quindi se fosse  tornato a Siracusa con forze sufficienti ed abbondanti rifornimenti avrebbero  potuto addirittura prendere prigionieri i nemici.
Convinti i senatori, partì da Cartagine con una flotta di centotrenta navi  da guerra e settecento onerarie (navi da  carico).
 Spinto da venti favorevoli Bomilcare in breve arrivò a Pachino, ma quegli stessi venti che lo avevano spinto verso  occidente, gli impedirono di veleggiare verso Siracusa.
 Epicide temendo che, perdurando i venti di Levante, la flotta Cartaginese  tornasse in Africa, lasciata l’Akradina in mano ai mercenari fece vela incontro  a Bomilcare.
  In tale situazione Marcello, prevenendo le mosse dei Siciliani, che  intendevano liberare Siracusa dall’assedio Romano e volendo al tempo stesso  impedire a Bomilcare di sbarcare nel porto grande, prese il mare con la flotta  comandata da Crispino.
 Bomilcare nonostante disponesse di maggiori forze, quando vide che Crispino  si dirigeva contro di lui, colto da non si sa quale timore, prese il largo.
Epicide viste crollare le  proprie speranze, per non restare intrappolato a Siracusa, si diresse ad  Agrigento attendendo gli eventi.
 
XVI – Quando i Siracusani vennero a conoscenza della fuga di Epicide e che  l’Isola era stata abbandonata, compresero che non restava loro altra alternativa  se non la resa.
Pertanto uccisi i luogotenenti di Epicide, nominarono sei governatori che
  imputando a Geronimo, ad Ippocrate ed allo stesso Epicide la colpa della  defezione, dovevano trattare la resa, volendo ad ogni costo riconciliarsi con i  Romani.  
  Ma il loro desiderio fu frustrato, poiché in città spadroneggiavano i  mercenari e i Siciliani, che avevano disertato dall’esercito Romano.
Questi ultimi, temendo che Marcello non avrebbe avuto pietà di loro,  dapprima uccisero i sei governatori, poi cominciarono a far strage dei  Siracusani, mentre i mercenari chiedevano quali accordi fossero stati presi con  i Romani; infine, rassicurati dai messi di Marcello che il loro fato sarebbe  stato diverso da quello dei disertori, li lasciarono al loro destino.
  Costoro si erano trincerati nell’Akradina.
Marcello, concesso a quelli che volevano fuggire lo spazio per farlo,  ordinò l’ultimo assalto.
  I disertori, mostrandosi tanto vili quanto si erano mostrati crudeli, si  diedero ad una ignominiosa fuga.
Poste delle guardie attorno alle case degli amici dei Romani, Marcello  diede mano libera al saccheggio dell’Akradina.
Si narra che nella furia del saccheggio un  soldato abbia ucciso Archimede.
  I suoi familiari, ricercati da Marcello, furono  posti in salvo.
Quella che era stata la più grande città del mondo, dovette cedere a Roma  il primato, ma secondo gli accordi presi con Marcello, conservò le proprie  istituzioni e seppure assoggettata, fu da noi designata quale capitale della  Sicilia Romana.
In verità le città Greche furono sempre rivali dei Cartaginesi e lo fu in  particolare Siracusa, che gelosa della propria autonomia combatté  vittoriosamente anche contro l’invasione Ateniese.   
  La stolta scelta di Adranodoro e Zoippo che, quali tutori del giovane  Geronimo erede del grande Gerone, consegnarono la città ai Cartaginesi tradendo  un glorioso passato, preparò la fine della grandezza Siracusana.
Un immane bottino cadde in  mano Romana.
 
NOTA DELL’EDITORE
  Marcello portò a Roma i  tesori dell’arte Greca, provocando involontariamente un insanabile conflitto  tra coloro che si aprirono all’influenza Greca e coloro che rifiutavano  qualunque commistione.
Publio  Cornelio Scipione “l’Africano” fu il più famoso esponente  della corrente innovatrice, Marco Porcio Catone “il Censore” rappresentava l’altra  corrente di pensiero.
  
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    | Publio Cornelio Scipione “l‘Africano” | 
    Marco Porcio Catone “il Censore” | 
  
Famosa è una lettera di  Catone al figlio, nella quale alludendo ai Greci scrive: “Ti insegnerò o  figlio, che massa di incorreggibili bricconi essi siano”.
  Non fu un confronto solo ideale,  ma soprattutto politico.
Per usare un’espressione  attuale, Catone era un isolazionista che non ammetteva alleati ma sudditi.
  L’Africano al contrario  pensava che gli interessi di Roma sarebbero stati meglio garantiti concedendo  ai vinti quelle condizioni che l’antica Roma aveva concesso ai Latini.