I – Per dare seguito ai suoi piani Annibale iniziò con  l'assoggettamento della Spagna a meridione dell'Ebro, quella che noi chiamiamo  Spagna Ulteriore.
                
               
                  Annibale
 
                                 Per primi assalì gli Olcadi, poi i Vaccei, costoro unitasi ai Carpetani con  gli esuli degli Olcadi attaccarono i Cartaginesi.
               Annibale, evitata la battaglia in campo aperto, contrattaccò in condizioni  a lui favorevoli e forte di quaranta elefanti sconfisse i nemici.
               In breve tutta la Spagna Ulteriore eccetto Sagunto cadde sotto il giogo dei  Punici.

Il Cartaginese per provocare la reazione Romana, incitò i Turdetani a fare incursioni nel  territorio dei Saguntini, loro vicini, dai quali li dividono lunghi anni di  discordie.
               Quando i Saguntini, nostri alleati ricorsero a Roma, con sommo  disprezzo della verità, Annibale li accusò di  aver molestato i Turdetani, suoi alleati.
                 I consoli Publio Cornelio Scipione e Tiberio Sempronio Longo riferirono al  Senato quale situazione si fosse determinata.
               I senatori decisero di inviare ambasciatori in Spagna per verificare lo  stato delle cose.
                 Annibale, volendo provocare la guerra, fece precipitare gli eventi.
                 Gli ambasciatori non avevano ancora lasciato Roma e già Annibale attaccava  Sagunto (Marzo 219 a.C.).
               Così essendosi evoluti gli avvenimenti fu riconvocato il Senato, qui  secondo alcuni si doveva assegnare ad un console la Spagna, all'altro l'Africa,  conducendo la guerra per terra e per mare, secondo altri si doveva combattere solo in Spagna contro  Annibale.
               Prevalse un terzo partito che sosteneva non doversi affrontare  imprese così grandi prima del ritorno degli ambasciatori dalla Spagna.
                 Questa opinione era sostenuta anche da Gaio Flaminio Nepote a nome della  plebe e da Quinto Fabio Massimo Verrucoso, per i patrizi.
                 Se poi gli ambasciatori non fossero riusciti a fermare Annibale, dovevano  andare a Cartagine.
               Ma i nostri ambasciatori  non riuscirono a conferire con Annibale, perché questi, mandata incontro una  nave, affermò che non poteva garantire la loro sicurezza nel pieno di una così  furiosa battaglia. 
                
                II – Secondo le istruzioni ricevute dal Senato, gli ambasciatori Romani  veleggiarono allora verso Cartagine.
               Prima che l’ambasceria Romana arrivasse, nel senato Cartaginese prese la  parola Annone dicendo: “So che la mia inimicizia  verso Amilcare, padre di questo giovane ambizioso e sfrenato, renderà le mie parole  sgradite a molti, eppure vi dico che l’unica nostra speranza di salvezza è  quella di consegnare Annibale ai Romani per evitare una guerra catastrofica”.
               
                  Annone
 Le sue parole caddero nel generale silenzio.
               L’ambasceria Romana non era stata ancora ricevuta dal senato Cartaginese,  quando, dopo otto mesi di eroica resistenza, Sagunto fu espugnata (Novembre 219) dalle soverchianti forze  di Annibale.
                 Prima che la città cadesse in mano nemica i Saguntini, consapevoli del  destino che li attendeva, fusero i propri ori con altri metalli, per impedire  ai Cartaginesi di godere delle loro ricchezze.
               La presa di Sagunto, mentre apriva la strada alla guerra, d'altro canto,  come fu chiaro in tempi successivi, mostrava che l’esercito di Annibale,  fortissimo in campo aperto, non era altrettanto valido nell’assalto di città  difese da forti mura, tanto che i Saguntini, pur ridotti a poche migliaia di  uomini, resistettero per mesi ai ripetuti assalti delle decine e decine di  migliaia di soldati di Annibale.
               Ricevuti infine nel senato Cartaginese, gli ambasciatori Romani chiesero se  Annibale avesse attaccato Sagunto per pubblica deliberazione.
               I sostenitori dei Barca elusa la domanda dei Romani, iniziarono a  disquisire sul trattato dell’Ebro, sostenendo il diritto di Annibale ad  attaccare Sagunto, colpevole di aver provocato le popolazioni loro alleate.
               Allora il più anziano degli ambasciatori Romani, l’insigne Marco Fabio  Buteone,
                 presa la parola disse:
                 “Non è più il tempo di  discutere di trattati, Sagunto è stata distrutta, dei nostri alleati è stata  fatta strage, nuovamente vi chiedo se Annibale ha agito autonomamente o per  pubblica deliberazione”.

                  Buteone
               Nel senato, mentre Annone abbandonava l’aula, si alzò un grande strepito.
                 Allora Marco Fabio aperta la piega della toga disse:
                 “Ho qui due cosa da darvi,  la pace o la guerra”.
                 Esaltati i senatori Cartaginesi risposero che desse loro ciò che voleva.
               Il Romano, levatosi in piedi, solennemente proclamò:
                 “Vi dò la guerra”.
                
               III - Annibale, distrutta Sagunto, tornò a Cartagena, portando con sé in  condizione di schiavitù i Saguntini superstiti.
E intanto preparava la guerra contro Roma.
               Poiché doveva assicurarsi che, una volta partito con l'esercito, le tribù  Spagnole non si ribellassero, delegò al fratello Asdrubale il comando dei  mercenari, in gran parte fatti venire dall’Africa, che dovevano tenere a bada  le popolazioni più bellicose.
               L’esercito che lui stesso avrebbe guidato era  formato da circa quarantamila uomini, tra i quali, comandati da Maarbale                 si trovavano oltre ottomila cavalieri, in maggior parte Numidi.
               
                  Maarbale
La fanteria era composta da Spagnoli e Africani, mentre i Cartaginesi  occupavano le posizioni di comando.
                 Per non trovarsi privo di rifornimenti lungo l'avanzata verso la Gallia  Cisalpina, Annibale aveva ordinato che l’esercito fosse seguito da  numerosissimi carri e bestie da soma.
                 Infine per intimorire i nemici decise di condurre con se quaranta elefanti.
               Quando tutto fu pronto e la stagione propizia ai primi di Aprile (218) lasciò Cartagena e marciò verso l’Ebro.
                 Da qui proseguì verso i Pirenei, stando alla larga da Emporiae, senza  incontrare eccessive resistenze, ma superati i confini della Spagna, i  mercenari Spagnoli, che nulla sapevano delle intenzioni di Annibale, si  chiedevano dove li volesse condurre.
               Costui prima cercò di rassicurali con la promessa di un grande bottino, ma  intanto teneva segreta la sua meta.
                 D’altra parte metà della sua fanteria era Spagnola, quindi Annibale fu  costretto a fermarsi poco oltre i Pirenei, cercando di convincere gli Iberici a  non abbandonarlo.
               Mentre il tempo passava la fortuna venne in soccorso del Cartaginese,  infatti una delegazione di capi Insubri e Boi arrivarono per conferire con lui.
                 Costoro dichiararono che se Annibale fosse arrivato nella Gallia Cisalpina  avrebbe trovato centomila Galli, con una forte cavalleria, pronti a sostenerlo,  pronti a combattere contro Roma, pronti a marciare su Roma. 
               Annibale aveva portato con se grandi ricchezze, grazie alle quali con  ricchi doni si assicurò il favore dei Galli, promettendo loro di dividere  equamente il bottino, che con le loro vittorie si sarebbero assicurati.
                 Il Cartaginese ben sapeva come la recente guerra che aveva contrapposto  Roma ai Taurini, agli Insubri ed ai Boi, non aveva fiaccato l’animo bellicoso  dei Galli, reso ancor più furioso per le sconfitte subite.
                 Gli stessi Galli erano fiduciosi che alleandosi con Annibale avrebbero  finalmente piegato Roma.
                
               IV – I Romani intanto, mentre ardevano di sdegno contro i Cartaginesi,  tardavano a prendere le necessarie decisioni.
Accadde così che mentre si pensava di combattere Annibale in Spagna, questi  aveva varcato i Pirenei.
               Prima di giudicare severamente questa nostra inerzia appare opportuno  considerare che dalla fine della prima guerra Punica (241) fummo  costantemente chiamati alle armi.
               Dapprima la ribellione dei Falischi, repressa in breve tempo, poco dopo  l’insurrezione della Sardegna e della Corsica, conseguente alla cacciata dei  Cartaginesi, mentre in Illiria infuriava la pirateria.
               Vista la debolezza dei Cartaginesi, fiaccati dalla I guerra Punica e dalla  guerra Libica, non potevamo tollerare che le due isole, cadessero in mano di  popolazioni che con ogni probabilità si sarebbero date alla pirateria, mettendo  a repentaglio il commercio delle citta nostre alleate come Massalia (Marsiglia) ed Emporiae (oggi Empurias, in Catalogna), oltre a  quelle dell'Etruria.
               Roma conquistò la Corsica solo dopo due anni di guerre (nel 237),  mentre l'assoggettamento della Sardegna richiese un grande dispendio di forze  per le continue ribellioni delle tribù locali.
                 Tra l’altro si venne a creare un insanabile dissidio con i Cartaginesi che,  pur essendo stati scacciati dalle isole, si sentirono da noi defraudati.
               Pochi anni dopo la pirateria degli Illiri nel mare Adriatico divenne così  impunita che le stesse città alleate di Roma ne furono vittime. Ma impunità non  doveva restare, pertanto non ci potemmo esimere dal combattere la prima guerra  Illirica (231).
                 Venuti a capo degli Illiri fu la volta dei Galli Cisalpini che, con  l’eccezione dei Cenomani, scesero in guerra con un esercito sterminato, furono  sconfitti in Etruria a Talamone e definitivamente a Mediolanum da Gaio Flaminio  Nepote (224).
              
                                Approfittando delle presunte difficoltà dei Romani, Demetrio di Faro,  ripresa la pirateria provocò, la seconda guerra Illirica (221), che i  consoli Lucio Emilio Paolo e Marco Livio Salinatore condussero a termine con la  definitiva sconfitta degli Illiri.
               Appare dunque comprensibile che volessimo evitare una nuova guerra, di  tutte la peggiore che potessimo desiderare, mentre le campagne abbandonate dai  giovani, chiamati alle armi da tante guerre, divenivano sempre più  improduttive.  
                
               V – Tornando ad Annibale la sua avanzata procedeva  più lentamente di quanto avrebbe desiderato: infatti, come detto, attraversato  l’Ebro si diresse verso i Pirenei e per non ritardare la marcia evitò Emporiae  che, difesa da possenti mura, avrebbe potuto resistere all’assedio per lungo  tempo, consentendoci di soccorrerla via mare. Ma anche per superare i Pirenei  dovette negoziare con le popolazioni locali le condizioni per attraversarne i  territori, senza dover logorare le proprie forze con indesiderati conflitti.
               E il tempo passava.
               Intanto i Massalioti (marsigliesi), mentre informarono i Romani che  Annibale aveva varcato l’Ebro,  temendo  che il Cartaginese, come aveva espugnato Sagunto, volesse assalire la loro  città, invocarono il nostro aiuto.   
               Il timore dei Massalioti  era ben fondato, infatti se Massalia fosse caduta in mano nemica Annibale  avrebbe conquistato una base navale formidabile, dalla quale avrebbe  controllato le rotte da e verso la Spagna, minacciato i porti dell’Etruria ed  infine si sarebbe assicurato tutti i rifornimenti necessari senza dovere  percorrere lo stesso logorante cammino via terra, nel quale era al momento  impegnato. 
                
               VI – Colto di sorpresa il Senato Romano dovette cambiare tutti i piani di  guerra.
Ai nuovi consoli Publio Cornelio Scipione (padre dell’Africano) era stata assegnata la Spagna, dove si pensava di fermare Annibale. A  Tiberio Sempronio Longo,
l’Africa, con il compito di portare la guerra sotto le mura di  Cartagine.  
               
                 
                   |  |  | 
                 
                   | Scipione padre | Longo | 
               
               
                 Come dirò di seguito, Tiberio Sempronio che era già partito dalla Sicilia  verso Cartagine, fu richiamato in patria, mentre Publio Cornelio fu inviato in  soccorso dei Massalioti.
               Imbarcatosi in Etruria il console sbarcò a Massalia con due legioni e circa  cinquemila ausiliari. Da Massalia proseguì verso le foci del fiume Rodano, dove  in posizione vantaggiosa pose il campo attendendo Annibale.
                 Ma visto che del Cartaginese non c’erano tracce fece riposare le truppe.
               Fatale fu questo ritardo, infatti, Annibale aveva fatto credere di puntare  su Massalia, mentre in realtà risaliva il fiume Rodano verso settentrione.
                 
               
                  I Volci,              una tribù Gallica particolarmente bellicosa che abitava su entrambe le rive  del fiume ed era legata ai Massalioti dai comuni interessi assicurati dal  commercio, non vennero a patti con i Cartaginesi.  
                 Portate sulla riva orientale le genti che abitavano sulla riva destra del  Rodano, qui attesero in armi i nemici.   
                 
                 Publio Cornelio, non vedendo apparire i Cartaginesi, mandò in esplorazione  trecento cavalieri scelti accompagnati da guide Massaliote.
               Frattanto Annibale, per quanto sorpreso dalla resistenza dei Volci, che non  aveva piegato neppure con l’offerta di ricchi doni e d’oro dei quali i Galli  sono avidissimi, non si perse d’animo.
               Fatte costruire un grandissimo numero di barche per attraversare il fiume e  schierato in ordine di battaglia il proprio esercito, sperava di intimorire i  nemici, ma costoro, allineati sull'altra riva del fiume, con grande strepito  d'armi mostrarono che non si sarebbero sottratti alla battaglia.
               Il Cartaginese fu allora costretto a ricorrere ad un nuovo stratagemma.
                 Informato dalle sue guide che più a settentrione il Rodano presentava un  agevole guado, nel cuore della notte inviò Annone figlio di Bomilcare (uno dei più insigni  personaggi di Cartagine) con un gran numero di  cavalieri verso questo guado che distava dal suo campo venticinque miglia (circa 37 km).
               Annone, dopo aver fatto riposare i cavalieri, attraversò il fiume e iniziò  a scendere verso meridione per prendere alle spalle i Volci.
               
                  Annone
 
                VII – Intanto la cavalleria scelta Romana, guidata dai Massalioti, risalendo il  Rodano si scontrò con cinquecento cavalieri Cartaginesi.
               La battaglia fu violentissima e pressoché pari le perdite, ma furono i  nemici a ritirarsi.
                 Orgogliosi per la vittoria i nostri tornarono da Pubblio Cornelio  annunciandogli che Annibale stava risalendo il Rodano puntando verso  settentrione.
               Come sopra detto i ritardi accumulati ci furono fatali, infatti se il  console, grazie alla mediazione dei Massalioti si fosse schierato a fianco dei  Volci, l’avanzata di Annibale verso Roma sarebbe terminata sul Rodano.
                 Ma così non volle il Fato che domina la vita degli uomini.
               I Volci, come tutti i Galli sono valorosi combattenti, ma nella loro  indolenza disdegnano la disciplina, che presiede all’arte della guerra.
               Quindi non si curarono di vigilare sulle mosse del nemico e quando Annone  li attaccò da settentrione con la sua formidabile cavalleria Numidica, furono  colti di sorpresa, mentre Annibale approfittando del loro disorientamento  iniziò ad attraversare il fiume.
               I Galli, come spesso abbiamo verificato, nelle prime ore del combattimento  si battono con incredibile vigore, ma con il passare delle ore le forze vengono  loro meno.
                 Accadde così anche in questo frangente.
               Vistisi perduti i Volci si dispersero nei loro territori e Annibale restò  padrone del campo, anche se aveva dovuto pagare ai nemici un pesante tributo di  sangue.
               Quando la battaglia fu terminata i Cartaginesi traghettarono anche i loro  elefanti, impresa non facile perché le belve prese dal panico, causato dalle  acque del fiume, solo a gran fatica furono condotte sull’altra riva.
                
               VIII – Publio Cornelio, compreso che l’obiettivo di Annibale non era Massalia,  ma che intendeva attraversare le Alpi per invadere la Gallia Cisalpina, prese  una decisione ad un tempo coraggiosa e previdente.
Per impedire che il nemico fosse rifornito dalla Spagna, affidò buona parte  del suo esercito al fratello Gneo Cornelio Scipione Calvo.
               Questi, imbarcatosi a Massalia sbarcò ad Emporiae (nel nord della Catalogna), nostra fedele alleata che lo accolse  con grandi onori ed anche con sollievo visto che la caduta di Sagunto, storica  alleata dei Romani, aveva causato tra i nostri alleati un forte risentimento  contro Roma che non era intervenuta in sua difesa.
               
                  Scipione Calvo
                  Quindi l’arrivo di Gneo Cornelio, nei frangenti cha abbiamo sopra  descritto, fu accolto quale prova che i Romani non avrebbero abbandonato la  Spagna Citeriore (dal punto di visita  romano, al di qua dell’Ebro).
               Gneo Cornelio oltre ad essere un grande condottiero, fu un uomo di  ineguagliata pietà, grazie a queste sue virtù riconciliò con i Romani i popoli  a settentrione dell’Ebro, come detto, indignati contro di noi che avevamo  abbandonato i Saguntini.
               Per difendere la Spagna Citeriore (la  Catalogna), circa centosettanta miglia (250  Km) a meridione di Emporiae, edificò la città di Tarraco (Tarragona), base navale fondamentale  per i Romani, che protesse con mura inespugnabili.
               
              
 
               Mentre a mezza strada tra Emporiae e Tarraco, costruì il grande castra di  Barcino (Barcellona).
              
                  Barcino
              Frattanto Publio Cornelio, avvertito che Annibale, passato il Rodano,  marciava verso le Alpi per scendere nella Gallia Cisalpina, imbarcatosi a  Massalia rientrava in Italia, dove approdò a Pisae (Pisa).
              
  
IX – Per avere libero il campo, il Cartaginese indusse gli Insubri ed i Boi  ad attaccare la colonia Romana di Placentia i cui abitanti, in gran parte  veterani, difesi da munitissime mura, respinsero bravamente i barbari.
Di lì a poco sopraggiunse con una legione il pretore Romano Lucio Manlio  Vulsone che incautamente attaccò i Galli: fu a sua volta respinto, lasciando  sul terreno non poche vittime.
I Taurini (abitavano i territori  subalpini, compresa Torino), temendo che l’esercito Cartaginese avrebbe  devastato le loro terre, ruppero l’alleanza con gli Insubri, mentre i Cenomani,  nostri alleati, chiamavano i giovani alle armi, pronti a concentrarsi a Brixia (Brescia).
Gli Insubri allora chiesero aiuto ai Gesati, ma costoro memori della  recente sconfitta, nella quale avevano perduto entrambi i loro re, rifiutarono di  scendere nuovamente dalle Alpi, tra l’altro senza sapere chi avrebbero dovuto  servire, gli Insubri, o i Cartaginesi?
In tali frangenti il Senato Romano ordinò al console Tiberio Sempronio di  non sbarcare in Africa, ma tornato in Italia, di unire le sue forze a quelle di  Publio Cornelio.
Peraltro, sulla via del ritorno, Tiberio Sempronio aveva espugnato  l’importante base navale Cartaginese di Malta, lasciandovi un forte presidio.   
 
X – Annibale, messi in fuga i Volci, fatto riposare l’esercito e curare i  feriti, riprese la marcia verso le Alpi ma non poté seguire la via più comoda  poiché i passi più agevoli da superare erano presidiati dai bellicosi Gesati.
Costoro temevano che Annibale volesse occupare le loro montagne, pertanto a  nessun costo vollero consentire la sua avanzata.
  Per valicare le vette delle Alpi i Cartaginesi dovettero combattere passo  dopo passo, inoltre poiché la stagione estiva era terminata, l'esercito fu  investito da tormente di neve, a causa delle quali scendendo dai monti caddero  nei burroni un gran numero di bestie da soma, con i viveri che trasportavano ed  anche dieci elefanti andarono perduti.
Quando infine raggiunsero le valli  subalpine trovarono schierati in ordine di battaglia i Taurini.
  Invano Annibale cercò di negoziare le condizioni per il passaggio del suo  esercito nel loro territorio, la parola fu lasciata alle armi.
Respinti dai Cartaginesi i Taurini si rifugiarono nella loro maggiore città  Taurasia (Torino).
  I Taurini sono una popolazione Gallo-Ligure, le loro maggiori città sono  invero dei grandi villaggi, la cui difesa è affidata a modesti steccati.
Nonostante la strenua resistenza, in meno di una settimana Taurasia fu  espugnata e qui Annibale mostrò la sua natura crudele, la popolazione fu  massacrata, probabilmente per intimorire le altre avverse tribù.
  Il risultato che ottenne fu ambiguo, i villaggi delle pianure si arresero,  mentre le popolazioni che abitavano alle pendici dei monti si ritirarono  all’interno.
In compenso la fama della crudeltà dei Cartaginesi si diffuse dalla Gallia  all’Etruria.
  Intanto i Cenomani concentrarono a Brixia un forte esercito.
  Dopo questi ulteriori scontri Annibale dovette far riposare nuovamente  l’esercito, che a causa delle battaglie e dell’attraversamento delle Alpi si  era ridotto radicalmente di numero.
Prima di passare il Rodano si stimava che Annibale potesse contare su  quarantamila fanti ed ottomila cavalieri, mentre a questo punto il numero dei fanti  si era dimezzato ed i cavalieri erano scesi a poco più di seimila.
In attesa di ricongiungersi con gli Insubri ed i Boi, il Cartaginese si  impegnò a fondo per assoldare i guerrieri Liguri, non solo famosi per i loro  valore e la loro resistenza, ma anche perché le tribù orientali sono nostre  nemiche, mentre i Genuati (gli abitanti  di Genova) e le tribù occidentali sono nostri alleati.
Tuttavia, a causa del povero territorio, i Liguri orientali sono un’esigua  popolazione dalla quale al momento Annibale trasse non più di mille uomini.
 
XI – Publio Cornelio, come detto, sbarcato a Pisae con la cavalleria scelta ed  un modesto numero di fanti, procedette al massimo della velocità verso  Clastidium (Casteggio in prossimità di  Pavia), nel pieno del territorio degli Insubri.
Qui fu raggiuto dalle due legioni arruolate dai pretori Manlio e Atilio.
  Publio Cornelio intendeva con questa mossa, frapporsi tra gli Insubri e i  Boi, per impedire che uniti si aggregassero ai Cartaginesi.
Ebbe successo, ma poco fiducioso nelle qualità dei legionari, in massima  parte reclute, si lasciò indurre ad arruolare un corposo numero di cavalieri  Galli.
Da Clastidium avanzò verso il fiume Ticino, che scendendo dall’Helvetia (la Svizzera), con le sue acque, ancor  più vorticose per le piogge, che nel mese di Settembre gonfiano quei fiumi,  costituiva per Annibale un ostacolo difficile da superare.
Giunto sulle rive del Ticino, Scipione costruì un ponte di legno per  passare sulla riva destra del fiume, dove intendeva fortificarsi in attesa del  nemico.
  Ma il nemico era già arrivato.
Quasi senza che i due comandanti lo volessero le avanguardie dei due  eserciti si affrontarono. Quella dei Cartaginesi era costituita da parte della  cavalleria Numidica comandata da Maarbale, quella dei Romani dalla cavalleria  Gallica e dalla guardia pretoriana di Publio Cornelio.
Al primo scontro i Galli disertarono e passarono dalla parte di Annibale.
  Il console Romano, ferito, fu portato in salvo dalla sua guardia, nella  quale militava il figlio diciottenne (il  futuro Africano).
Il ponte di legno fu tagliato, così i Cartaginesi non poterono inseguire i  Romani.
  Le nostre perdite non furono superiori a poche centinaia di uomini, ma la vittoria  di Annibale fu ingigantita, tanto da attirare dalla parte Cartaginese un gran  numero di mercenari.
Peraltro la sconfitta fu dal Senato attribuita al caso, se non  all’imprudenza del console che aveva affidato la sua stessa vita alla infida  cavalleria Gallica.
Molti lutti dovevano colpire Roma perché divenisse chiaro che la forza dei  Cartaginesi era rappresentata dalla validissima cavalleria Numidica, comandata  da Maarbale, grandissimo condottiero.
  D’altro canto la incrollabile fiducia dei consoli Romani nella nostra  fanteria, li avrebbe indotti ad accettare imprudentemente molte altre  battaglie.
Invero se Publio Cornelio, difeso dal Ticino, avesse atteso pochi giorni lo  avrebbe raggiunto l’altro console e ben diverso avrebbe potuto essere l’esito  di questo primo scontro.
  Ma Pubblio Cornelio era stato violentemente attaccato per non aver impedito  ad Annibale di attraversare il Rodano, quindi cercava di riscattarsi di fronte  ai propri cittadini.
Infine Annibale in quei giorni compiva trentuno anni e da undici anni,  ininterrottamente, aveva speso la propria vita in guerra e come lui la maggior  parte dei comandanti Cartaginesi, mentre a Roma i consoli, comandanti degli  eserciti, restavano in carica un solo anno.
 
XII – Tiberio Sempronio Longo procedendo al massimo della velocità, parte via  mare e parte via terra si unì a Publio Cornelio a Placentia.
Pochi giorni dopo lo raggiunse una delegazione di Galli Cenomani, chiedendo  il suo aiuto, poiché Annibale, avendo saputo che erano nostri alleati,  devastava il loro territorio. Tali richieste non restarono inascoltate, Tiberio  Sempronio senza dilungarsi, presi i Cenomani come guide li seguì con parte  della cavalleria e della fanteria.
Colti di sorpresa i Cartaginesi, ne fece strage, mentre i sopravvissuti  ripararono nel campo di Annibale.
  Il Cartaginese sorpreso come i suoi, non azzardò la battaglia, ma restò  all’interno delle proprie fortificazioni.
  Forte di questa vittoria il console intendeva arrivare al più presto allo  scontro decisivo.
Temeva infatti che Annibale avrebbe portato dalla sua parte un gran numero  di Galli, tra i quali i Boi, che grazie alla manovra di Publio Cornelio non  erano ancora riusciti ad unirsi agli Insubri e quindi ad Annibale stesso.
Costui peraltro, corrotto il capo della guarnigione Romana di Clastidium,  occupò la fortezza nella quale avevamo depositato grandi quantità di viveri,  quindi la perdita di Clastidium fu particolarmente dannosa.
La città era abitata da quella parte dei Liguri che è nostra alleata e qui  il console Marco Claudio Marcello (nel 222) aveva sconfitto in una  grande battaglia gli Insubri che tentavano di occuparla.

                  Marco Claudio Marcello
                  Lo stesso console uccise di sua mano Virdumaro re degli Insubri e consacrò  le sue armi a Giove. Fu questa l’ultima volta che un console Romano conquistò  le spolia opima (così erano dette le armi  del re nemico ucciso per mano dello stesso console).
Per dimostrare la propria magnanimità, visto che aveva preso Clastidium  senza combattere, Annibale risparmiò la guarnigione Romana, peraltro formata  per la maggior parte da Liguri.
  I timori di Tiberio Sempronio sembravano avverarsi, infatti caduta  Clastidium i Liguri orientali, nostri nemici avevano la via spianata per  raggiungere i Cartaginesi.
 
XIII – Per le ragioni sopraddette il console cercava ogni occasione per  attaccare Annibale.
Qualcuno sostiene che Publio Cornelio lo abbia invitato alla prudenza, ma  tuttora convalescente per la ferita riportata sul Ticino, aveva pochi argomenti  da opporre al collega, reduce peraltro dal recente vittorioso scontro con i  Cartaginesi.
Per quanto la stagione fosse inoltrata (metà  dicembre 218) e il freddo imperversasse, anche Annibale desiderava venire a  battaglia: temeva infatti che i Galli, vedendolo imbelle lo potessero  abbandonare.
Posto il campo a circa sei miglia (9000  mt) dall’accampamento Romano dal quale lo separava il fiume Trebbia, iniziò  a provocarci.
  L’esercito Cartaginese poteva contare su circa trentamila uomini tra  arcieri e fanti, contro i trentaseimila Romani, ma la nostra cavalleria era  costituita da solo quattromila uomini contro i diecimila nemici.
  
  Tiberio Sempronio incurante delle gelide acque del fiume, lo fece  attraversare, all’inizio del combattimento la fanteria pesante romana resse  gagliardamente il confronto, ma quando la nostra cavalleria, sopraffatta dai  Numidi di Maarbale, iniziò la ritirata, lasciando scoperti i suoi fianchi,  anche la nostra fanteria dovette ripiegare.
Combattendo furiosamente i nostri legionari si aprirono un varco tra i  nemici e in circa diecimila riattraversarono il fiume,
  mentre i cavalieri superstiti si erano già messi in salvo.

Degli ausiliari i Cenomani e i Liguri fuggirono verso le proprie terre,  mentre una parte della fanteria leggera si disperse nelle campagne, tutti gli  altri furono uccisi o fatti prigionieri.
Nonostante la grave sconfitta il Senato Romano restava fiducioso,  attribuendone la causa alla presunta imperizia del console Tiberio Sempronio,  che, essendo di parte plebea, non godeva in Senato di grandi appoggi.  Confortava i Romani il valore dimostrato dalla nostra fanteria pesante, che in una  situazione di estremo pericolo si era posta in salvo facendo strage dei nemici.
Le truppe superstiti furono condotte nelle colonie di Placentia e Cremona,  mentre i Cartaginesi sopraffatti dalla fatica rinunciarono ad attraversare il  Trebbia.
 
XIV  - Come ho ricordato, nonostante la  sconfitta il Senato restava fiducioso, gloriandosi per il valore dei legionari  ed ignorando il fatto, pur palese, che la battaglia era stata vinta dalla  cavalleria nemica, formata in gran parte dai Numidi, famosissimi cavalieri,  guidata da Maarbale abilissimo comandante.
Infine per Ercole come potevano quattromila cavalieri Romani resistere a  diecimila Cartaginesi?
Cullandosi in queste illusioni, sprecando la pausa imposta dai rigori  dell’inverno, il Senato non prese i necessari provvedimenti, preparando le  future sventure.
Per l’anno successivo (217) furono eletti consoli il plebeo Gaio Flaminio Nepote  ed il patrizio Gneo Servilio Gemino, costui fu inviato con le sue legioni  ad Ariminum (Rimini) che grazie alla  via Flaminia, costruita tre anni prima dall’altro console, consentiva un rapido  collegamento con Roma.
A Gaio Flaminio fu affidata la difesa dell’Etruria.  
  
                  Gaio Flaminio Nepote
 
XV – Mentre queste cose accadevano in Italia, Gneo Cornelio Scipione Calvo  sbarcato ad Emporiae (settembre 218), come detto riconciliò con i Romani  tutte le popolazioni del litorale fino all’Ebro.
Le fiere popolazioni delle  montuose zone interne, non tollerando la prepotenza dei Cartaginesi, strinsero  alleanza con Gneo Cornelio, impegnandosi a fornire valide coorti ausiliarie.
Annone (uno dei tanti cartaginesi con  questo nome), lasciato da Annibale a presidiare, con diecimila fanti e  mille cavalieri, i territori a settentrione dell’Ebro, temendo di affrontare le  superiori forze Romane, attendeva l’arrivo di Indibile,
  il più potente capo delle tribù Iberiche stanziate sulle montagne a cavallo  dell’Ebro.
Quando Indibile lo raggiunse mosse verso Gneo Cornelio per attaccare  battaglia.
  
                  Indibile
Il Romano temendo che anche Asdrubale Barca potesse arrivare con il suo esercito, fu ben lieto di accettare la sfida.

                  Asdrubale Barca
La battaglia si svolse a Cissa, a meridione di Tarraco.
Lo scontro fu breve, i Romani sbaragliarono i nemici, catturando lo stesso  Annone e Indibile.
  Ricchissimo fu il bottino, poiché negli alloggiamenti dei Cartaginesi  presso Cissa, i soldati di Annibale, per non essere impediti nella loro  avanzata, avevano lasciato tutti i loro beni più preziosi.

 
Prima di venire a conoscenza del disastro di Cissa, Asdrubale Barca  attraversò l’Ebro, venendo informato dell’accaduto. Mandati in esplorazione  alcune ali (un ala era formata  all’incirca da 700 cavalieri) di cavalieri, costoro sorpresero gruppi di  soldati Romani che vagavano per i campi, diretti verso il mare, quelli che  riuscirono a fuggire corsero alle navi e si salvarono.
Asdrubale, non essendo in condizione di affrontare Gneo Cornelio,  riattraversò l’Ebro.
  Il comandante Romano, lasciata a Tarraco una guarnigione, si imbarcò per  Emporiae.
 
XVI – Asdrubale non appena seppe che Gneo Cornelio si era imbarcato, attraversò  nuovamente l’Ebro, convincendo alla defezione gli Ilergeti ed allo stesso tempo  devastando le terre degli alleati di Roma.
Lasciati i quartieri invernali Gneo Cornelio marciò contro gli Ilergeti,  mentre Asdrubale riparava nuovamente a meridione dell’Ebro.
Abbandonati da colui che li aveva spinti alla ribellione, gli Ilergeti si  rifugiarono tutti nella città di Atenagro, che cinta d’assedio dopo pochi  giorni si arrese, consegnando ai Romani ostaggi e pagando un tributo.
  Un prezzo ben maggiore toccò ai Lacetani, alleati dei Cartaginesi, che  scontratisi con i Romani, persero undicimila uomini.

 
Il loro capo Amusico fuggì presso Asdrubale.
  Pattuito un tributo di venti talenti d’argento (circa 450 kg), i Lacetani capitolarono.
Quanto accaduto insegnò a Gneo Cornelio di non fare troppo affidamento  sulla fedeltà delle volubili tribù Spagnole.
  Pertanto stabilì i nuovi quartieri invernali parte a Tarraco, molto più a  meridione di Emporiae e parte a Barcino.
  In tal modo con le due basi poteva controllare il litorale a settentrione  dell’Ebro e le relative popolazioni.
Tarraco, per essere delle due basi quella più meridionale, doveva essere  più fortemente difesa.
  I legionari non trascorsero l’inverno in ozio, ma secondo la volontà del  loro comandante, eressero a difesa della città munitissime mura ed ampliarono  il porto.
Le basi navali costruite, o rafforzate da Gneo Cornelio, come vedremo,  ebbero nel corso della guerra Annibalica una importanza strategica  fondamentale, perché impedirono ai Cartaginesi di inviare ad Annibale dalla  Spagna rifornimenti via mare.     
  
  Si chiudeva con le vittorie  di Gneo Cornelio Scipione Calvo un anno (218) per Roma altrimenti disastroso, per le non poche occasioni propizie perdute,  gli errori compiuti e la grande abilità di Annibale nel volgere ogni  circostanza in proprio favore.
 
XVII – Come abbiamo a suo tempo ricordato Gaio Flaminio Nepote era  violentemente avversato dal Senato Romano, ma al tempo stesso fortissimamente  sostenuto dalla plebe, ciò gli valse il suo secondo consolato (217).
Assunta la carica scrisse al suo predecessore Tiberio Sempronio Longo di  concentrare alle Idi (il 15) di Marzo  le truppe ad Ariminum, per assumerne il comando.
  Il Senato venuto a conoscenza della volontà del console tentò, ricorrendo  alle più invereconde superstizioni di impedire a Gaio Flaminio di partire da  Roma.
Flaminio fu costretto a lasciare Roma quasi fosse un privato cittadino e  raggiunse Ariminum.
  Scornati i Senatori deliberarono che il console fosse richiamato.
A tal fine gli inviarono due ambasciatori, ma Flaminio forte del plebiscito  popolare, grazie al quale era stato eletto, rimandò a Roma gli ambasciatori,  senza degnarli di una risposta.
  Flaminio prese dunque in carico le due legioni lasciate da Sempronio e le  due dal pretore Gaio Atilio Serrano, in una delle quali militavo anch'io.
Ero allora giovane, infaticabile, impaziente e ambizioso, facevo di tutto  per essere notato dal centurione primipilo, il valorosissimo Lucio Licinio  Gladio. Questi vista la smania di mettermi in luce mi nominò Aquilifer (portatore  dell'Aquila della legione).
Attraversato l’Appennino Gaio Flaminio ci condusse in Etruria, dove  prevedeva che sarebbe sceso Annibale.  
  Il Cartaginese peraltro era sollecitato dai Galli ad invadere l’Etruria,  dove contavano di fare largo bottino e in pari tempo portare la guerra fuori  dai loro territori.
Poiché Annibale non poteva contare su aiuti né dalla Spagna, né  dall’Africa, visto che avevamo il controllo dei mari e Gneo Cornelio aveva  ributtato al di là dell’Ebro i nemici, forzatamente doveva ascoltare i Galli  che gli fornivano gli indispensabili mercenari.
Pertanto lasciò i quartieri invernali prima ancora che terminasse  l’inverno.
Ai primi di marzo si mise in marcia e per sorprenderci scelse la via più  disagevole, ma più breve, quella che attraversando gli Appennini conduce a  Pistoria (Pistoia).
 
XVIII – Appena scesi nelle pianure dell’Etruria i mercenari di Annibale ne  devastarono il territorio, e non si accontentarono di fare bottino, ma fecero  strage di tutti coloro che non erano riusciti a riparare dietro le mura delle  città.
Tale essendo la situazione Flaminio procedette a marce forzate per  intercettare Annibale, avvertendo l’altro console di raggiungerlo nel più breve  tempo possibile.
Ma anche Annibale avanzava con la massima rapidità verso Roma.
  Abituato alle volubili popolazioni spagnole, il Cartaginese pensava che i  nostri alleati si sarebbero ribellati, aprendogli la strada verso l’Urbe.
Flaminio dunque, nell’intento di arginare Annibale, ingaggiò con il nemico  una vera corsa, ma il Cartaginese si era mosso in anticipo e giunto in prossimità  del Trasimeno, celò le sue truppe nelle vallate che circondano il lago.

Quando anche noi arrivammo in prossimità del lago, non solo non eravamo  stati raggiunti dall'esercito di Gneo Servilio, ma per nostra sventura ci  trovammo avvolti in una fittissima nebbia, mentre un tremendo terremoto scosse  la terra, facendo cadere dall'alto sulle nostre teste massi e pietre.
Nel momento della nostra massima confusione Annibale, che occupava le  alture, libere dalla nebbia, diede il segnale di attacco. Il console non si  arrese al Dio nemico, ma prese le armi si preparò al combattimento.
  Licinio Gladio ordinò ai legionari di seguire l'Aquila e le Insegne, poi  raggiunta l'avanguardia si pose a fianco di Gaio Flaminio.
Combattemmo ferocemente, animati più dal desiderio di fare strage di  nemici, che dalla speranza della vittoria.
  Quando il console vide che non riuscivamo più a sostenere le cariche della  cavalleria Cartaginese, spronato il cavallo si gettò nel folto dei nemici.
Il suo corpo non fu mai ritrovato.
Perduto il comandante, l'esercito si disfece.
Con pochi compagni ci dirigemmo verso la riva del lago, cercando di eludere  i cavalieri Numidi.
  Qui giunti, trovata una barca, a forza di remi ci allontanammo dalla terra,  mentre cominciava a scendere una lugubre notte.
Protetti dalle tenebre, dopo avere remato a lungo verso meridione,  riguadagnammo la riva.
  Marciando lungo sentieri di campagna, ci ritrovammo sulla via Flaminia.
  Qui incontrammo una lunga fila di legionari, che come noi si dirigeva verso  Roma.
Fu allora che ebbi consapevolezza della sciagura che si era abbattuta su di  noi, infatti mentre nel nostro piccolo gruppo non c'erano feriti, molti e  sanguinanti erano quelli che aiutati dai commilitoni si trascinavano verso la  patria.
  Tra questi vidi Licinio Gladio, che ferito al petto, pur perdendo  copiosamente sangue, si rifiutava di farsi portare su una lettiga.
A turno lo aiutammo a camminare, finché non perse i sensi, allora  finalmente lo caricammo su una improvvisata lettiga.
Tutto sembrava perduto.
  Mentre era nostra compagna la paura dei cavalieri nemici.
  Era già notte inoltrata quando sentimmo rumore di zoccoli, in un baleno ci  nascondemmo tra i cespugli, ma era uno dei nostri tribuni che con pochi  cavalieri correva a Roma, ad avvertire il pretore urbano, perché preparasse la  difesa della città.
Disfatti dalle fatiche ed oppressi dall'angoscia, ci fermammo per un  torbido sonno.
  Infine marciando instancabilmente per tre giorni, giungemmo a Roma.
  Entrati in una città mai così silenziosa, fummo soccorsi e rifocillati,  mentre Licinio Gladio fu curato da mani pietose.
Quasi ogni casa ospitò un ferito.
Eppure bene avevamo fatto a non arrenderci, infatti, i prigionieri ebbero  diversa sorte, Annibale, al fine di accattivarsi gli Italici, lasciò liberi  quelli che erano caduti nelle sue mani, i Romani furono tutti massacrati.
 
XIX – La catastrofe del Trasimeno premiò l’ardimento e la fortuna di Annibale,  che tuttavia dovette pagare alla sua infida doppiezza un alto prezzo.
Infatti le popolazioni dell’Etruria e dell’Umbria, che avevano dovuto  subire la crudeltà e le vessazioni dei mercenari Cartaginesi, lungi dall’aprire  al nemico le porte delle loro città, si richiusero dietro alle mura, pronti a  combattere.
  Annibale tentò allora di ottenere con la forza ciò che altrimenti non aveva  ottenuto e nell’intento di dare un esempio terrificante marciò verso Spoletium (Spoleto).
Circonvallata la città iniziò l’assediò, ma dopo circa una settimana,  subite pesanti perdite, tolse l’assedio e mutò i suoi programmi.
Quanto avvenuto dimostrò che l’esercito Cartaginese, fortissimo in campo  aperto grazie soprattutto alla cavalleria Numidica, non era temibile se doveva  scalare mura nemiche.
  Del resto la stessa Sagunto, pur assediata da soverchianti milizie  Cartaginesi, era caduta soltanto dopo otto mesi.
  
  Intanto a causa della morte di uno dei due consoli, fu nominato dittatore  Quinto Fabio Massimo Verrucoso (275 –  203)  e comandante della cavalleria Marco Minucio Rufo.
  
    |  |  | 
  
    | Quinto Fabio Massimo Verrucoso | Marco Minucio Rufo | 
 Fabio Massimo, ben prima di altri, aveva compreso che il nemico, era al  momento invincibile, pertanto non doveva essere affrontato in campo aperto.  Quindi per prima cosa fortificò tutti i passi che dall’Umbria e dall’Etruria  conducono a Roma.
Contemporaneamente pose i suoi accampamenti in luoghi sopraelevati,  inattaccabili dalla cavalleria di Maarbale, e pur seguendo Annibale da vicino,  evitò ogni scontro, ma non appena i nemici lasciati i loro accampamenti, si  disperdevano nei campi per vettovagliare, li prendeva prigionieri o ne faceva  strage.
In questo modo portò all'esasperazione l'impaziente Annibale che fu  costretto a modificare nuovamente i propri piani.